– a cura dell’Ufficio Stampa di GreenAccord onlus e della redazione di OrientePress –

«Flebili luci e molte ombre nel documento conclusivo della Cop26, ovvero la XXVI Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, che si è tenuta dal 31 ottobre al 13 novembre scorso a Glasgow, in Scozia. In particolare, il documento finale contiene come sempre principi di indirizzo generale ampiamente condivisibili; ma se si va a cercare fra le righe dei diversi articoli si scoprono le grandi contraddizioni fra cosa e come andrebbe fatto e cosa si sta concretamente facendo. Le decisioni e gli impegni concreti, inoltre, sono rimandati all’anno prossimo auspicando che nel frattempo vengano messi a punto quei meccanismi di verifica, controllo e coerenza delle azioni concrete proposte dai singoli Stati».
Resta critica la posizione di Greenaccord Onlus, espressa dal direttore scientifico Andrea Masullo, in relazione al cosiddetto “Glasgow Climate Pact”, il documento finale di Cop26. Ancora una volta, il rischio è che le dichiarazioni di intenti non si traducano in azioni concrete.
Il documento stesso dimostra l’impossibilità di perseguire gli obiettivi dichiarati.

«All’inizio del Patto – spiega Masullo – si manifesta la forte preoccupazione per il fatto che a causa delle attività umane le temperature siano già oggi aumentate di 1,1°C, riconoscendo che gli impatti saranno molto minori se l’aumento sarà mantenuto al di sotto di 1,5°C. Poco dopo si afferma che per raggiungere tale obiettivo bisogna ridurre del 45% le emissioni di gas serra entro il 2030. Tuttavia, il trend attuale delle emissioni mostra un aumento che ci porta verso scenari di crescita delle temperature intorno ai 2°C entro il 2050 e ben oltre i 2,5°C entro la fine del secolo. Questa realtà rende al limite dell’impossibile il mantenimento dell’obiettivo di 1,5°C.
Se è vero che per la prima volta un testo della COP parla di combustibili fossili, è anche vero che le conclusioni hanno dovuto recepire le indicazioni della Cina, dell’India e dell’Arabia Saudita tendenti a rendere meno prescrittivo il processo di abbandono dell’uso di queste fonti energetiche: ad esempio l’eliminazione accelerata dei sussidi ai combustibili fossili si applica solo a quelli “inefficienti”, mentre l’abbandono del carbone vale solo per i progetti “unabated”, ossia quelli che non prevedono la cattura e lo stoccaggio delle emissioni di anidride carbonica.
Il limite dell’impossibile viene negativamente superato dal colpo di scena finale: la sostituzione dell’uscita dal carbone con il termine “riduzione dell’uso del carbone” senza che sia definita nemmeno una road map, né date, né tappe di avvicinamento. Tutto nasce da una posizione imposta dall’India che in questi anni ha sempre sostenuto l’impossibilità di rinunciare al carbone che possiede in abbondanza per sostenere i fabbisogni di una popolazione che in gran parte vive in condizioni di grande povertà.
Ma le contraddizioni non si esauriscono qui; proprio riguardo al sostegno dei paesi poveri non si è andati oltre un “profondo disappunto” per il mancato rispetto dell’impegno preso a Parigi di mettere a disposizione 100 miliardi di dollari l’anno a partire dal 2020».

Anche la “Forest Declaration” con gli impegni a conservare ed ampliare le foreste mondiali, mostra subito i propri limiti. «Facciamo notare – precisa Andrea Masullo – che ciò mira a compensare le emissioni che non si intende evitare, mentre per mantenere accesa la speranza di poter ancora limitare il riscaldamento globale ad 1,5°C, l’assorbimento forestale dovrebbe essere speso come una carta aggiuntiva. Ricordiamo che ad oggi le grandi foreste del pianeta sono soggette ad un rapido degrado e diminuzione a causa degli incendi e delle attività umane che, per esempio, hanno reso l’Amazzonia un emettitore e non un assorbitore di CO2».

Positiva, invece, l’adesione dell’Italia – benché ad un livello poco impegnativo, ovvero solo con lo status di “amico” –, alla BOGA-Beyond Oil&gas Alliance, un’intesa che mette in programma lo stop alle licenze e alle concessioni per nuove esplorazioni di giacimenti di petrolio e gas, per arrivare alla “carbon neutrality” entro il 2050. «Questa adesione – riprende Masullo – avviene in un periodo in cui non appare ancora chiara la strategia del MITE (Ministero della Transizione Ecologica). Inoltre, le numerose uscite contraddittorie di questi ultimi mesi non rendono ancora chiari il percorso, il punto di approdo e la coerenza con gli impegni per il clima, di tale transizione».

La classe politica – come afferma anche papa Francesco – continua a non rivelarsi all’altezza delle nuove sfide globali. «Complessivamente, da Cop26 emerge un quadro inquietante ed incoerente che, dopo 26 anni di risultati ampiamente inadeguati agli obiettivi, fanno dubitare se una classe politica figlia di quel modello di sviluppo che si intende cambiare sia davvero in grado di recidere le radici su cui siede.
Forse è giunto il momento – conclude Andrea Masullo – che altri stakeholder prendano in mano la situazione in modo da trainare la politica ad assumersi le proprie responsabilità con maggior coraggio. Ci riferiamo al mondo della finanza e dell’industria green, ai rappresentanti delle amministrazioni locali e della società civile, il cui coinvolgimento è genericamente evocato anche nel Patto di Glasgow».