Servizio a cura di Elena Scarici – Foto di Edoardo Abruzzese –

Ottanta opere del grande fotografo napoletano, Mimmo Jodice, che ha da poco compiuto 90 anni, sono riunite a Villa Bardini a Firenze, nella mostra “Senza tempo“, a cura di Roberto Koch, promossa da Fondazione Cr Firenze e Intesa Sanpaolo, con Fondazione Parchi Monumentali Bardini e Peyron. Realizzate tra il 1964 e il 2011, le foto ripercorrono i suoi temi più importanti, suddivisi nelle sezioni Anamnesi, Linguaggi, Vedute di Napoli, Città, Natura, Mari: dalla sequenza di volti statuari e mosaici antichi, realizzati per l’architetto Gae Aulenti per la stazione Museo della metropolitana di Napoli, alle sperimentazioni in camera oscura degli anni Sessanta. Nella sezione delle Vedute di Napoli si ritrova tutta l’inquietudine dell’artista, panorami indecifrabili ed enigmatici in un tempo rarefatto e sospeso, fatto di vuoti e di assenze. E poi il suo sguardo su altri paesaggi urbani come Boston, Parigi, San Paolo, Roma, Milano, Tokyo. Una sezione è dedicata alle immagini delle opere fiorentine di Michelangelo. Accompagna l’esposizione un documentario sulla vita dell’artista, realizzato dal regista Mario Martone, suo amico e concittadino.

«Voglio morire di fame, ma voglio morire a Napoli». Questa frase di Mimmo Jodice dice molto della sua grinta, il rigore estetico, l’intenzione caparbia di realizzare i suoi progetti fotografici laddove è nato. E laddove ha vissuto una infanzia tormentata, disperata, povera.

Mimmo Iodice è figlio del Rione Sanità, un quartiere iconico, il cuore di una città che vive e pulsa nelle sue viscere più profonde, un quartiere che negli ultimi 15 anni ha vissuto una profonda rinascita, grazie alla valorizzazione dei beni culturali in particolare le chiese e le monumentali Catacombe di San Gennaro e san Gaudioso. È in questo pullulare di atmosfere incredibili che Iodice affina la sua vena artistica. Nato nel 1934, affronta un’infanzia difficile, l‘improvvisa morte del padre, nel 1939, causa il tracollo economico della famiglia. Seguono anni complicati, durante i quali alle sfortunate vicende familiari si intrecciano i momenti della guerra. A dieci anni Mimmo è costretto a iniziare a lavorare. Nei riguardi dell’arte è un appassionato autodidatta.

«Le sperimentazioni mi hanno portato a capire fino a che punto si potessero forzare i limiti del linguaggio fotografico, stravolgere le regole convenzionali e arrivare a una dimensione creativa, libera e autonoma», spiega il fotografo. Il processo in camera oscura è parte fondamentale del suo lavoro, dell’atteggiamento empirico che lo contraddistingue. Afferma che rifarebbe tutto quello che ha fatto durante la sua lunga vita, iniziata con un’infanzia difficile e povera nel Rione Sanità.