di Sergio Bedessi – Un caso di questi giorni ci fornisce lo spunto per operare alcune considerazioni su uno dei metodi di indagine tanto in voga di questi tempi: la prova del DNA.

Oggigiorno questa prova sembra essere la panacea, la via maestra per qualsiasi tipo di indagine e spesso si tende a scordare che si tratta non di una prova (una certezza), ma di un indizio, fra l’altro espresso in termini probabilistici.

Se è vero, come è vero, che la Corte di Cassazione penale è intervenuta con sentenza n. 48349 del 30 giugno 2004 a far assurgere questo elemento indiziario al rango di vera e propria prova non ci si deve dimenticare che le sentenze nel nostro ordinamento non fanno stato (nel senso che valgono solo per il caso specifico e per una interpretazione) e che dal punto di vista scientifico e metodologico non si può essere così spicciativi.

Infatti dovremmo ricordare che:

si tratta di un metodo probabilistico e non deterministico (in pratica non vi può essere mai, per come è strutturato il test, certezza assoluta);

il test dovrebbe essere considerato come conferma collaterale ad altre prove, per esempio per discriminare un soggetto fra vari indiziati per i quali si posseggano già altri indizi, se non prove, e non per individuare un indiziato in mezzo ad una moltitudine di persone.

Vi è purtroppo molta confusione, quanto meno mediatica, su questo test, con la tendenza a far credere al grande pubblico che il test del DNA sia equivalente ad una identificazione certa ed assoluta del colpevole di un delitto: niente di più sbagliato.

Per esempio, in un articolo della rivista “Focus” (on line) si può leggere un’intervista a Emiliano Giardina, qualificato come “responsabile del laboratorio di genetica forense dei Tribunali di Roma e di Urbino e collaboratore della Polizia Scientifica della Direzione Centrale Anticrimine della Polizia di Stato”.

Nell’intervista si legge “… L’idea di base dei genetisti della polizia è stata quella di fare un’analisi a tappeto di tutta la popolazione che avrebbe potuto, in un modo o nell’altro, essere coinvolta nel delitto …”; già l’idea di base contiene, di fondo, un presupposto errato: la prova del DNA, in quanto probabilistica, dovrebbe essere utilizzata per discriminare fra più indiziati il colpevole e non per ricercare un indiziato in mezzo a migliaia di persone.

Molte certezze che l’intervistato porta avanti lasciano perplessi, per esempio: “… Per confrontare il campione trovato sulla ragazza, polizia e carabinieri hanno dapprima centrato le indagini sulle zone frequentate da Yara, come la palestra dove si stava recando la sera del 26 novembre 2010, e quelle dove è stato trovato il cadavere, per esempio la discoteca di Chignolo d’Isola, che si trova lì vicino. Ma anche il cantiere dove erano state rinvenute alcune tracce forse di Yara dai cosiddetti “cani molecolari” (cani addestrati a rintracciare particolari combinazioni di molecole). Sono state così trovate somiglianze tra il Dna di un frequentatore della discoteca e il sangue di riferimento.Da questo si è poi risalito a tre fratelli (il cui Dna era ancora più simile a quello di riferimento) e poi su su fino al loro padre, Giuseppe Guerinoni, attraverso il Dna trovato dietro il bollo della patente e poi a quello delle ossa esumate – Guerinoni è morto nel 1999 …”.

Anche qui vengono dati per scontati elementi di certezza che così certi non possono essere: per esempio si parte dalla certezza – che non può esservi – che la saliva dietro il bollo della patente fosse del proprietario della patente, quando invece l’unica certezza è che la saliva è di chi ha materialmente usato la propria saliva per attaccare la marca da bollo, che non è detto sia stato per forza il proprietario della patente di guida.

L’intervista continua: “Il collegamento tra la signora e Bossetti è stato infine fatto con il cosiddetto DNA mitocondriale, dopo una serie di indagini più classiche. Trovati padre e madre dell’assassino, è stato possibile, con altre indagini a tappeto, risalire al loro figlio, che sarebbe, così dice il DNA, Massimo Giuseppe Bossetti”.

Si può ancora osservare che le indagini “a tappeto”, che l’intervistato riferisce, hanno il problema che sono per loro stessa natura probabilistiche e non deterministiche, in pratica forniscono una percentuale di probabilità, magari molto alta, altissima, ma non mai la certezza assoluta.

Ancora: “Il passo definitivo è stato quello di trovare la madre, che sembra essere, anche se la donna ora nega, una signora ora 67enne di Terno d’Isola; avrebbe avuto da Guerinoni un figlio illegittimo, uno di una coppia di gemelli. Il collegamento tra la signora e Bossetti è stato infine fatto con il cosiddetto DNA mitocondriale, dopo una serie di indagini più classiche. Trovati padre e madre dell’assassino, è stato possibile, con altre indagini a tappeto, risalire al loro figlio, che sarebbe, così dice il DNA, Massimo Giuseppe Bossetti. “

Il tecnico poi dice: “Si parte dal presupposto che il 99,9% del DNA di un individuo è identico a quello di tutti gli altri della specie. Inoltre La maggior parte dei geni funzionanti sono piuttosto costanti nella loro struttura, altrimenti non riuscirebbero a svolgere il loro “lavoro”; ci sono però regioni che non hanno nessun significato biologico e sono estremamente variabili da persona a persona, senza che questo comprometta il funzionamento del corpo.”

Il tecnico prosegue ancora: “Sono queste le regioni del DNA usate; i più comuni per i test di paternità sono i cosiddetti str, cioè short tandem repeat, cioè «ripetizioni in tandem brevi». Queste ripetizioni sono lunghe normalmente 2-6 coppie di basi, ripetute un numero variabile di volte. Per esempio una sequenza di 16 basi potrebbe essere «gatagatagatagata», cioè 4 copie del frammento «gata». Il numero di copie ripetute può variare, e proprio su questo numero di variazioni si basano le analisi che differenziano i vari DNA. L’analisi è semplice perché per distinguere una persona dall’altra basta «pesare» queste sequenze ripetute, non è necessario leggerle una per una, come accade per altri tipi di sequenze. Un’analisi di questo tipo è anche molto breve, e ha bisogno di circa due ore. Per questo è stato possibile usare il DNA delle 18-19.000 persone coinvolte nell’indagine.”.

Leggendo attentamente le dichiarazioni si riesce a comprendere che il metodo usato, essendo di fatto una sorta di “pesatura” delle sequenze e non un confronto una ad una, pesatura utilizzata appunto per risparmiare tempo perché altrimenti operare i confronti delle singole sequenze richiederebbe anni, porta ad avere una probabilità, che risulta essere di circa 1/10.000.

È chiaro che siccome le persone coinvolte nell’indagine “a tappeto” sono 19.000 circa, ammesso che i prelievi (perché questo è un altro punto critico del tipo di esame, come molti autori statunitensi hanno rilevato) siano stati effettuati correttamente, è possibile che ci siano almeno due persone con lo stesso DNA.

L’unica cosa certa, cosa ovvia a dirsi, è il collegamento fra Bossetti e la madre naturale, trovato utilizzando il DNA mitocondriale che si trasmette inalterato da madre a figlio senza alcun contributo del padre.

Non si riesce a comprendere quindi come l’esperto poi si azzardi a dire che “… La probabilità di una corrispondenza di un individuo preso a caso tra il sangue di Bossetti e quello trovato su Yara è un 99 seguito da moltissimi 9 dopo la virgola, cioè di miliardi e miliardi“.

Purtroppo l’Italia è il paese dove i processi, anziché nelle aule di tribunale, vengono fatti sui e dai mezzi di informazione, spesso mescolando la finzione scenica delle molte serie televisive che hanno ad oggetto le più spericolate e fantasiose indagini, con la realtà, solleticando i cervelli dei telespettatori in modo tale da far creder loro che condurre un’indagine sia una sorta di gioco.

Mentre nei film tutto funziona alla perfezione, nella realtà invece le cose vanno in modo ben diverso e non è la prima volta che la persona viene data per colpevole e poi risulta innocente.

Si ricorderà che nello stesso caso Yara all’inizio fu accusato un extracomunitario e pensando (grazie alla traduzione errata di una intercettazione) che questo stesse fuggendo, quando invece andava semplicemente in vacanza, si procedette all’arresto, con la conseguenza di dover poi rilasciare il poveretto, con tante scuse.

Ma per portare altri esempi di come i mezzi di informazione a volte si prestino ad amplificazioni scandalistiche con il risultato di ingenerare in chi legge o vede deduzioni suggestive quanto fallaci, è emblematico sullo stesso caso di Yara Gambirasio un video: “ANSA – Il parere della criminologa sul caso Yara”.

In questo la criminologa (così definita, è comunque una psicologa) ipotizza, non si sa bene come, “un solo aggressore sulla scena del crimine”; viene da chiedersi come possa fare certe affermazioni, visto che le informazioni dovrebbero essere in possesso solamente della polizia giudiziaria e non di terzi soggetti.

Con certezza poi più degna di un teorema matematico che di una indagine giudiziaria la criminologa, a proposito del test del DNA, lo chiama in causa come “elemento investigativo robustissimo”; infatti dice: “Parametri ad oggi considerati affidabili per l’accertamento di natura genetica … sovrapposto in tutto e per tutto con tutti i marcatori indicati con quelli di Massimo Bossetti … elemento investigativo robustissimo ….”.

Poi, con una serie di passaggi dialettici ad effetto fa poi divenire quello che è un indizio, sia pure forte, una prova certa, parlando di: “Traccia diretta si tratta, colloca Massimo Bossetti sulla scena del crimine al momento dell’aggressione della piccola Yara.”, ed anche “abbiamo il DNA di Massimo Bossetti, perché quello è il suo DNA, non può appartenere a nessun altro. Sugli indumenti indossati dalla piccolina, in proprio in zona attigua al tessuto lacerato da una delle ferite da taglio … questo tipo di informazione è in grado di condurre quest’uomo davanti ad un giudice”.

In tre frasi accattivanti dal punto di vista dialettico si passa dall’indizio, sia pur pesante, a carico di Bossetti, alla condanna, con un pericoloso quanto affrettato giustizialismo.

Che in merito al test del DNA le certezze non sono poi tali, oltre a vari studi per lo più statunitensi, lo rileva un interessantissimo studio di Francesca Poggi (docente di Teoria generale del diritto e Diritto e Bioetica presso l’Università di Milano) dal titolo “Tra il certo e l’impossibile. La probabilità nel processo”, dove in modo chiaro la studiosa dice: “I dati statistici e i calcoli probabilistici rivestono spesso una grande importanza nella fase probatoria dei processi: tuttavia, si tratta di dati che, da un lato, sono difficili da elaborare e da acquisire, e, dall’altro, sono spesso interpretati erroneamente. … L’analfabetismo statistico, ossia l’incapacità di interpretare i dati statistici e, soprattutto, quelli espressi mediante percentuali, è un fenomeno molto diffuso,…”.

La studiosa dopo aver sommariamente spiegato come avviene il test del DNA e quali porzioni delle sequenze vengano controllate, quelle denominate VNTR (variable number tandem repeats) che consistono in sequenze di nucleotidi ripetute in tandem e in particolare le STRs (short tandem repeats) o microsatelliti, sequenze di DNA lunghe 2-6 bp che si ripetono numerose volte in modo diverso da individuo ad individuo andando dunque a costituire una sorta di “impronta digitale genetica”, precisa come tutto il processo sia altamente probabilistico e non possa avere certezza assoluta.

Lo studio precisa come il materiale genetico da sottoporre a confronto necessiti di una complessa preparazione, preparazione che di per sé, se non ben fatta può aggiungere ulteriori margini di errore iniziale a quelli già insiti nel test; altri errori possono poi essere causati da fattori inerenti alla scarsa quantità del DNA esaminato, dal degrado del materiale genetico dovuto al lasso di tempo trascorso fra il prelievo e l’analisi e infine dalla possibile presenza di profili misti, in pratico dal fatto che possa essere stata tipizzata una traccia nella quale era presente materiale biologico di più soggetti.

Riepilogando:

il test del DNA è per propria natura un test probabilistico e non deterministico. Fornisce dunque una indicazione altamente probabile, in una misura che normalmente è di 1/10.000, ma non fornisce e non può fornire una certezza matematica che il materiale biologico trovato appartenga a ad un determinato individuo;

la probabilità di 1/10.000 viene a scendere, anche di molto, fino a poter arrivare a 1/5.000, 1/2.000 per cause varie. Fra queste le modalità di prelievo del materiale biologico dal quale viene estratto il materiale genetico, le modalità di conservazione nel periodo fra il prelievo e l’analisi, le modalità di confronto fra il campione rilevato sulla scena del crimine e i campioni prelevati dai sospettati, modalità che sono esse stesse di tipo probabilistico, infine la possibilità che in determinato materiale biologico siano presenti, mescolate, tracce di più individui;

ammesso e non concesso che quel materiale biologico appartenga ad una determinata persona il test del DNA non serve a provare che quello sia realmente l’assassino ma eventualmente, con una probabilità che si è visto è ben lungi da essere una assoluta certezza, serve solo a provare che la persona era presente sul luogo del delitto.

Certamente l’impiego di questo test può essere risolutivo nelle indagini, ma non si dovrebbe mai ignorare che si tratta di un dato di natura probabilistica, con una percentuale di fondatezza che può variare anche di molto e che dunque dovrebbe essere utilizzato solo come discriminatore fra individui a carico dei quali vi sono già altri indizi.

Tornando al caso pratico, quello di Yara, ammesso quindi e non concesso che il materiale biologico ritrovato davvero appartenga all’assassino (perché potrebbe essere anche di altri individui che, in qualche modo, sono entrati in contatto con gli indumenti o con il corpo della ragazza) il rischio è che nel gran numero di persone sottoposte al test (è stato detto circa 19.000) vi siano almeno due, se non tre o quattro persone il cui DNA potrebbe corrispondere a quello ritrovato.