servizio a cura di Nadia Fondelli – foto di Edoardo Abruzzese –

Cinquant’anni al servizio degli ultimi. Questa la missione che scelse per sé un giovane e avanguardista prete della periferia romagnola nel 1968: Don Benzi e i suoi volontari, da quell’anno, ne hanno fatta tanta di strada, non solo metaforicamente parlando.
Da trenta anni si occupano di un fenomeno spesso ignorato dai più, perché scomodo, quello del racket della prostituzione, o, per dirla in parole più semplici, della tratta degli esseri umani a scopo sessuale.
Prima, durante e dopo l’ordinanza del Comune di Firenze e di altri comuni della città metropolitana, definita erroneamente anti prostituzione (che errore ridurre al mero moralismo sessista tutto ciò specie se continuiamo a ignorare, e noi della stampa tacere, la realtà di un fenomeno così complesso!) che mira a punire il cliente. Ordinanza contestata, ma già rodata con successo in altri Paesi d’Europa per debellare la domanda di oltre 3 milioni di uomini – tanti quanto una grande città come Milano! – che ogni notte cercano sesso mercenario a basso costo, da ragazzine schiavizzate che potrebbero essere loro figlie o loro nipoti.
Sono uscita per strada per conoscere da vicino il fenomeno dello sfruttamento della tratta prima, durante e dopo l’ordinanza: l’ho fatto per non voltare anche io la faccia dall’altra parte!

Timidamente sono salita per la prima volta sul pulmino dell’Associazione Giovanni XXIII a “battere” quegli stessi marciapiedi della periferia di Firenze e con me un gruppo eterogeneo di volontari di ogni età che hanno scelto di passare la notte a portare un po’ di calore umano.
Comincia il viaggio…poi, ecco che ci fermiamo: un piccolo astuccio da scuola colpisce subito la mia attenzione. Al posto delle penne e della gomma c’è un rossetto rosso fuoco, un mascara chiuso male, un pacchetto e mezzo di fazzolettini e uno specchietto civettuolo.
E’ appoggiato lì, su quel muretto basso insieme a un paio di scarpe comode, probabilmente di ricambio da mettere dopo essere scesa dai tacchi, e un giacchetto pesante piegato alla meno peggio dentro una busta da supermercato chiusa con un nodo.
Quando vede che ci avviciniamo ripone quelle sue poche cose nel cassetto del contatore di quel capannone industriale come fosse un guardaroba. Lì è anche una borsa similpelle comprata sul banco di qualche mercato di periferia da cui trilla un cellulare.
Mi colpiscono quegli oggetti che parlano di una vita sospesa e che forse sono le uniche cose che possiede.
Tengo gli occhi bassi, perché provo imbarazzo nel mio ruolo di cronista in incognito al cospetto di quella ragazzina dall’adolescenza interrotta, costretta alle tre di notte a vendere il suo corpo per pochi euro su quel marciapiede che nemmeno quest’estate torrida è riuscita a scaldare.
Avrà 15 anni o poco più, anche se, mi avvertono prontamente i volontari “sicuramente dirà che ne ha almeno 18 e che è sulla strada perché ha scelto di farlo e non perché costretta”.
La guardo da vicino e riesco solo a pensare che, come ogni sua coetanea a quell’ora dovrebbe essere in un letto caldo coccolata dai sogni dell’età e dal calore di una famiglia che invece è lontanissima e certamente ignara di quel suo destino.
A fatica alzo lo sguardo mentre i miei compagni della notte le porgono un bicchiere di té caldo.
E’ davvero una ragazzina travestita da donna che riesce a malapena a contenere il suo seno già maturo in una canottiera ridotta che lascia intravedere l’ombelico e una cicatrice. “Sicuramente un ricordo della Libia.” mi dicono i volontari.
Ciao, mi dice avvicinandosi, sorride e allarga le braccia nella richiesta di un contatto affettuoso.

I volontari provano a chiederle frammenti di storia, come e dove è sbarcata in Italia, quali contatti ha avuto… nella consapevolezza che riceveranno in cambio mezze verità e tante bugie.
Non riesco a staccare lo sguardo dai suoi occhioni bistrati di nero e gorati di lacrime, velati da una tristezza profonda che toglie il fiato e scolora il troppo fondotinta. Occhi che hanno visto… ma non sapremo mai che cosa…
Ma ai ragazzi dell’unità di strada poco importa delle sue bugie.
E’ una sorella. Una ragazzina ferita!” rispondono convinti. E sono lì per darle un po’ di calore e non solo quello del il tè.
Le porgono le mani, l’abbracciano, le carezzano i capelli, le spiegano che se vuole possono offrirle un’altra vita. Una vita normale lontana da quella strada polverosa dove i camion sfrecciano veloci e i camionisti si fermano; uomini di ogni età in cerca di una facile preda, di sesso non protetto a basso costo.
It is dangerous for you!” le dice una delle volontarie mentre la stringe a sè per riscaldarla. Stella (nome di fantasia) inizia a sciogliersi un po’, parla a monosillabi in uno strano afro-inglese appena comprensibile.
Si interrompe spesso col telefono. Chiamano le altre ragazze che affollano ogni angolo di quella periferia. Ridono e scherzano, si scambiano messaggi e canzoni. Forse stanno solo cercando di sentirsi ragazzine “normali” e vivere per un attimo la loro età.
La riguardo con la sua pelle liscia, i riccioli ribelli a malapena contenuti da un cerchietto e poi sotto il girocollo scorgo un’altra ferita causata probabilmente dalla punta di un coltello, risarcita alla meno peggio.
Sgrana i suoi occhioni quando le dicono che sono lì per aiutarla, sempre che lo voglia. Che il mondo di una ragazzina non può essere una strada di periferia; non può essere quella di vivere sotto il ricatto di dover pagare grosse cifre in cambio della salute dei suoi cari lontani che da quando è partita sognano di saperla a fare la parrucchiera.
Il Voodoo non esiste. A nessuna famiglia delle tue amiche che hanno deciso di venire con noi è successo qualcosa di brutto” le racconta Serena, la responsabile dell’unità di strada.
Ma Stella è titubante. Vorrebbe scappare, venire via, vivere… ma la paura è più forte. “Faranno del male ai miei genitori, ai miei cinque fratelli che devono andare a scuola”. Risponde singhiozzando.
Serena e gli altri volontari si sono sentiti rispondere così mille volte, ma non si scoraggiano. Siedono sul muretto accanto a lei, le offrono la spalla per piangere e le braccia per infondere un po’ di calore.

Il cuore si stringe anche al cronista in incognito mentre un forte brivido attraversa le sue braccia!
E il pensiero va a quegli uomini!

Uomini che sono i nostri mariti, i nostri figli, i nostri fratelli e che nel buio della notte diventano carnefici, artefici di adolescenze interrotte.
Quando torniamo a casa albeggia. Fra poche ore suonerà la sveglia per andare al lavoro. Lo faremo con l’agrodolce di aver portato conforto, ma di non essere riusciti, questa notte, a “liberare” nessuna ragazza.
In trenta anni, grazie all’insegnamento di Don Benzi ne abbiamo liberate abbastanza di ragazze, ma sempre troppo poche, – racconta Serena – ragazze che dopo aver fatto un percorso di recupero nelle nostre case famiglia oggi conducono vite abbastanza normali anche sei i traumi che si portano addosso dagli psicologi vengono equiparati a quelli dei reduci delle guerre”.
Hanno già liberato 7000 ragazze in tutta Italia: ragazze che hanno riacquistato una vita dignitosa, ma che rappresentano una goccia nell’oceano, a leggere i numeri.
Si stima infatti che attualmente, solo sul nostro territorio nazionale, siano fra 75.00 e 120.000 mila le ragazze costrette a prostituirsi e la maggioranza per strada con tutti i rischi che ne conseguono.
Un business importante per il malaffare che è oggi, dopo il traffico di droga e di armi, il più redditizio e genera un volume d’affari di circa 90 milioni di euro.
Le ragazze per strada sono sempre più giovani (il 37% minorenni fra i 13 e i 17 anni) e nella maggior parte dei casi costrette dai clienti a fare sesso non protetto.

Malgrado tutto questo i volontari della Giovanni XXIII continuano ogni giorno a credere e a lottare per un mondo dove parole come schiavitù e indifferenza non abbiano alcun significato!

Info
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