– a cura del direttore – foto di Edoardo Abruzzese

 Mentre gli “eletti” ( mai termine è stato usato in accezione più impropria!) stanno ancora pensando dopo più di due mesi che cosa fare per il Paese… e fra i mille problemi affrontare quello dei migranti mi è capitato di leggere Lettera a un mare chiuso per una società aperta di Ilaria Guidantoni.


La scrittrice parte dal presupposto che oggi non saremmo quelli che siamo se non ci fossero state le migrazioni, migrare è anche spostarsi per tornare e il Mediterraneo è fatto di un viaggiare che è un peregrinare e di un essere itinerante.

Preferisco far parlare lei e invitare alla riflessione… anche quella degli “eletti”!

 “Il mio Mediterraneo è nomade, la consapevolezza di appartenere a quella parte di umanità nomade radica ancor più il mio senso di appartenenza a questo mare. Il nomade infatti si muove spesso all’interno di un circuito chiuso, con spostamenti contenuti tradizionalmente nel tempo e nello spazio e spesso ciclici, stagionali – non solo nell’accezione riduttiva delle quattro stagioni – e un mare chiuso si presta bene a questo esercizio. Il nomade resta tale anche se compie tragitti brevi e più o meno nella stessa area. Diversamente, il migrante si sposta, spesso in modo irreversibile, da un posto all’altro, sovente su distanze molte lunghe e su un tragitto lineare. Tutt’al più può ipotizzare una migrazione di ritorno. Non solo, il migrante si sposta per fuggire da una situazione che non lo soddisfa o che addirittura gli è insopportabile, tradizionalmente spinto da carestie o guerre; o, ancora, per migliorare le proprie condizioni e si configura come emigrazione. Talora non ha una meta come accade nel caso del rifugiato o richiedente asilo, del profugo, che è una dicitura generica che evidenzia uno stato di precarietà.

Nel corso dei secoli le grandi migrazioni hanno cambiato il profilo del mondo ma, soprattutto in passato, avvenivano in un arco di tempo piuttosto lungo. Generalmente in ogni caso questo tipo di spostamenti non presenta un carattere nomade perché l’obiettivo è il raggiungimento di una condizione di stabilità e non di nomadismo: è la ricerca di una terra promessa, definita una volta per tutta o temporaneamente. Nel caso di fenomeni a carattere aggressivo riconducibili più o meno ad una dinamica colonizzatrice – anche in senso non tradizionale, come l’evangelizzazione o il tentativo di islamizzazione ad esempio – non c’è un reale spostamento nell’ottica del viaggiatore ma il dislocamento di uomini e forze è solo funzionale alla conquista dell’obiettivo. Salvo che poi possa, per vie secondarie e in un secondo tempo, generare fenomeni, anche paradossali, di insediamento permanente e di richiesta di “adozione” nella terra di conquista, da parte dei coloni stessi. Nel Mediterraneo questo è avvenuto con una certa facilità emotiva perché un mare chiuso dove le corrispondenze sono naturalmente alte, tende a favorire un’osmosi e un riconoscimento reciproco, al di là e oltre i ruoli, una volta che la storia ha fatto il proprio corso. Non è raro ad esempio sentire algerini e tunisini essere fieri della discendenza dai Romani che pure furono colonizzatori e in certo modo sfruttatori delle risorse indigene, fino al rapporto dialettico e per certi aspetti a tutt’oggi conflittuale con la Francia.

Il nomadismo è altro ed è una visione del vivere che proprio il Maġrīb mediterraneo mi ha regalato, oltrepassando la visione del viaggio come modus vivendi, già oltre quello di turismo. Essere nomadi vuol dire essere “bastardi” e quindi estremamente vitali.

Prendo a prestito la definizione che dell’intellettuale e della sua identità nomade – come la definisce – dà lo scrittore e giornalista algerino, editorialista del quotidiano Liberté Algérie, Amin Zaoui. Ricordando a sua volta il grande drammaturgo algerino Kateb Yacine, Zaoui sostiene che la creatività sia per sua natura errante e compia un cammino tortuoso e con essa “lo scrittore, in quanto testimone della storia individuale e collettiva, è portatore e distruttore delle identità, non di una ma di tante, dalla traccia di un tatuaggio, al mito, ai documenti scritti, ad un’emozione carpita, le sue fonti sono a loro volta altre identità.” Ogni identità, quando è viva, è sempre in stato di composizione quindi di superamento di se stessa “mentre qualsiasi sentimento di autosufficienza nell’appartenenza a un’identità porta alla morte di quest’ultima. Al contrario, nell’atto della scrittura l’identità vive un atto di violenza tollerata, è profanata e venerata ad un tempo, ma bisogna sopportarne il carico”. Per chi vive nel Mediterraneo l’identità è sempre in bilico ed è nell’ibridazione che si crea. Per uno scrittore in particolare la paternità, secondo Zaoui, è sempre plurale: “siamo dei bâtard noi scrittori. Dei bastardi felici. Chi è figlio di un solo padre è condannato presto all’oblio. Lo scrittore è il figlio del vento, del viaggio, del sogno”.

Ilaria Guidantoni, Lettera a un mare chiuso per una società aperta, Albeggi Edizioni, aprile 2016, pag 75 sgg.