– di Nadia Fondelli –
Ormai manca meno di un mese e… miracolo… si inizia a parlare del referendum prossimo venturo.
Una manciata di giorni, una ventina più o meno, per poter tentare di colmare questo silenzio assoluto che ha accompagnato la vigilia del sì o del no ad un tema che invece dovrebbe interessare tutti.
Nella nostra patria, che sulla pratica del referendum ha costruito la sua democrazia nei tempi bui degli anni di piombo sono al crepuscolo i grandi temi, i grandi ideali e anche i grandi guerrieri (penso ai radicali e a Pannella).
E’ triste poi constatare che evidentemente parlare del futuro dei nostri figli non ha lo stesso fascino sessuofobico e pruriginoso di divorzio e aborto e non ha alcuna importanza se si troveranno a nuotare nelle scorie oleose e puzzolenti di petrolio anziché nelle acque azzurre e acque chiare della nostra infanzia.
Ebbene sì. Parlare di referendum non è più fascinoso, forse non fa più audience o forse, molto più semplicemente non lo si deve fare se anche il premier ha beatamente detto agli italiani di non andare a votare per i referendum.

Orbene passi che alcuni cerchino di sottacere per non raggiungere il quorum e compiacere gli interessi (immensi) di chi con le trivellazioni sfama almeno dieci generazioni della sua famiglia, ma che il premier stesso suggerisca di non andare a votare quando i nostri nonni per il diritto al voto hanno lottato e sono morti grida vendetta.
Un orrore istituzionale che ha indignato alcune istituzioni ma che ci sta considerando che cotanto suggerimento è venuto da un premier non eletto dal popolo.
Bando alle ciance, per non cadere nel tranello di sottacere andiamo almeno noi al dunque.
Il 17 aprile dobbiamo andare a votare per dare una risposta alle 9 regioni (Basilicata, Calabria, Campania, Liguria, Marche, Molise, Puglia, Sardegna, Veneto) preoccupate per le conseguenze ambientali e per i contraccolpi sul turismo dello sfruttamento degli idrocarburi.
Non viene chiesto di fermarsi ora, subito e per sempre, ma che venga tolta quella regoletta subdola che permette di fatto di trivellare per sempre entro le 12 miglia marine dalle coste italiane con la dicitura “fino all’esaurimento del giacimento”.

Per le ragioni del sì lo sfruttamento marino non serve perché copre meno dell’1% del fabbisogno nazionale e inoltre, nonostante le garanzie promesse, non è così certo che alcune scorie non vengano rilasciate in mare anche se accidentalmente. Infine il futuro deve essere solo nell’energia pulita.
Le ragioni del no rispondono che il fabbisogno italico deriva proprio da quelle trivellazioni che sono ambientalmente sicure e che nonostante le molte dicerie rappresentano ancora il futuro del mondo.
Di certo c’è solo che il turismo e la pesca sono a rischio e che si è fatto di tutto, colpevolmente, per sottacere la prossima venuta della consultazione popolare.
Non volendo stare ai giochetti delle tre carte della comunicazione da bassa fazenda diciamo forte e chiaro che i costi non sono una scusante plausibile.
E’ vero che la consultazione costa qualcosa come 360 milioni di euro, ma è altrettanto vero che impuntarsi per non voler far coincidere la data con quella delle amministrative è doppiamente colpevole: per lo spreco di denari pubblici in tempi peraltro grami e per la volontà di non voler far raggiungere il quorum.
E pensare che 360 milioni di euro sono nè più nè meno l’equivalente degli introiti annuali dalle royalties dalle trivellazioni attualmente presenti nel nostro paese e che con quella cifra si potrebbe risarcire la metà dei risparmiatori truffati da Banca Etruria.
Ma nel bel paese, il referendum, esercizio fondamentale di democrazia in cui ogni cittadino è chiamato ad esprimersi in prima persona è demodé.
Colpevolmente sottaciuto nei tempi, nei modi e nei temi.
Il premier “ordina” di non andare a votare, i partiti di ogni colore e angolazione non s’indignano e il Presidente della Repubblica tace.
Noi no. Seguiteci e saprete tutto sul referendum del 17 aprile 2016.